Maltrattamenti in famiglia, disciplina e curiosità
E’ usuale, purtroppo, nella cronaca odierna, imbattersi in delicati casi in cui il luogo ove dovrebbe regnare la pace e la serenità per antonomasia, il focolare domestico, diventa teatro di episodi spiacevoli che a volte possono comportare un turbamento delle condizioni di normalità della vita familiare fino ad arrivare a casi di vera e propria sistematica violenza. Recentemente anche la cronaca locale è stata tristemente testimone di tali comportamenti, facendo emergere situazioni borderline come quella dell’uomo che aveva segregato la compagna in casa, impedendole di espletare le sue più basilari esigenze di vita, oppure di una donna che, incaricata della cura ed assistenza della propria madre, la aveva invece abbandonata nelle condizioni igieniche più precarie.
L’art. 572 c.p. di cui ci occuperemo oggi, in risposta ai vostri quesiti ed alle vostre segnalazioni, in particolare, punisce infatti chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo 571 c.p. (abuso dei mezzi di correzione o disciplina), maltratti una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
Tale reato è punito con la reclusione da due a sei anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, però, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il delitto di cui all’art. 572 c.p. si perpetra quando l’agente non si limiti a sporadici episodi di violenza, ma sottoponga le vittime ad una serie di sofferenze fisiche e morali che fanno sì che i singoli episodi risultino sia continuativi ed abituali, sia uniti da un’unica intenzione criminosa.
Il reato di maltrattamenti in famiglia: “configura una ipotesi di reato necessariamente abituale costituito da una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali acquistano rilevanza penale per la loro reiterazione nel tempo… trattasi di fatti singolarmente lesivi dell’integrità fisica o psichica del soggetto passivo, i quali non sempre, singolarmente considerati, configurano ipotesi di reato, ma valutati nel loro complesso devono integrare, per la configurabilità dei maltrattamenti, una condotta di sopraffazione sistematica e programmata tale da rendere la convivenza particolarmente dolorosa” ( Cass. Sez. III, 16 maggio 2007 n. 22850).
I maltrattamenti devono essere dunque essere valutati, in primis, seguendo il criterio della abitualità. Le violenze devono rappresentare un habitus nello svolgimento della convivenza.
Litigi o violenze sporadiche non possono essere ricomprese nel reato in esame e valutato il singolo caso, dunque, saranno di volta in volta diversamente qualificati: “perché sia integrato il reato in questione – infatti – occorre, secondo il significato riconducibile al termine “maltrattare”, che, come più volte affermato dalla giurisprudenza, l’agente eserciti, abitualmente, una forza oppressiva nei confronti di una persona della famiglia (o di uno degli altri soggetti indicati dall’art. 572 c.p.) mediante l’uso delle più varie forme di violenza fisica o morale. Ne deriva che in questa fattispecie si richiede che vi sia un soggetto che abitualmente infligge sofferenze fisiche o morali a un altro, il quale, specularmente, ne resta succube. Se le violenze, offese, umiliazioni sono reciproche, pur se di diverso peso e gravità, non può dirsi che vi sia un soggetto che maltratta e uno che è maltrattato”.
Riguardo a ciò che può essere ricompreso negli atti vessatori si possono, però, avere sorprese, soprattutto per chi non è un tecnico del settore. Vi sono delle situazioni in cui nel concetto di sofferenza fisica e morale abituale possono essere integrati dei comportamenti che di per sè potrebbero anche non essere oggetto di alcuna tutela penale.
Un esempio è una recentissima sentenza della Cassazione (n. 16543/2017, depositata il 03.04.2017), la quale ha ricompreso nel reato di maltrattamenti in famiglia anche la condotta di un coniuge che costringe il proprio partner a sopportare un adulterio compiuto all’interno delle mura domestiche in maniera continuativa.
La Suprema Corte era chiamata dunque a pronunciarsi sulla vicenda della coniuge costretta fra le altre cose, a sopportare passivamente, all’interno della propria abitazione, la consumazione di rapporti intimi del marito con l’amante.
Si poteva pensare che non vi fosse la possibilità della configurabilità del reato di maltrattamenti, per avere il marito intrattenuto una relazione extraconiugale e non una serie di atti vessatori in stricto sensu.
Secondo la Cassazione, già la Corte di appello però aveva “adeguatamente valutato l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, sia sotto il profilo della intrinseca linearità sia sotto il profilo della correttezza estrinseca, constatando come la condotta di violenza e di sopraffazione che l’imputato ha inflitto a sua moglie (consistente nell’intrattenere rapporti sessuali con l’amante all’interno della casa coniugale ed imponendo alla consorte l’accettazione di tale stato di fatto, aggravando il tutto con gravi minacce) abbia trovato riscontro anche nella relazione di servizio e nel chiaro contenuto delle conversazioni telefoniche intercorse tra l’imputato e la persona offesa”.
Quindi, enorme importanza dà la legge a quella che può essere la percezione sia fisica sia morale della sofferenza imposta.
Il consiglio che diamo, quindi, è di trovare ristoro e felicità nel nucleo familiare e di avere un comportamento corretto e rispettoso, ma di non lasciarsi mai convincere a subire passivamente dei comportamenti che possono sensibilmente modificare la qualità della nostra vita quotidiana fino a creare dei turbamenti tali da non rendere più sopportabile la convivenza.
Avv. Alessio Giuseppe Verde – Avv. Mariaelena Verde